I luoghi che ci assomigliano

Su Monte Gennaro c’è una funivia abbandonata. Una di quelle con i cestelli che trasportano due persone alla volta, in piedi.


I luoghi che ci assomigliano

Su Monte Gennaro c’è una funivia abbandonata. Una di quelle con i cestelli che trasportano due persone alla volta, in piedi. Ci sono ancora i cavi che scendono da cima a valle, arrugginiti, con i cestini appesi. Vegetazione robusta e astiosa si è avvinghiata ai tralicci, quasi volesse sprofondarli nella terra.
L’impressione è che tutto sia stato abbandonato all’improvviso, dopo l’evacuazione causata dall’annuncio di una imminente catastrofe naturale o dell’arrivo di una nube tossica.

Recentemente sono stato vicinissimo alla stazione bassa della funivia. Per un momento, distratto dal cigolio arrugginito dei cestini dondolati dal vento, ho rivisto mio padre che mi accompagnava per mano e mi diceva di non aver paura, mentre lasciavamo il suolo e ci arrampicavamo tra l’appuntito verde del bosco e il soffice azzurro del cielo. Era un giorno qualunque di primavera, primi anni Ottanta, ed avevamo raggiunto Palombara Sabina con una Fiat 127 bianca, nuova di zecca da pagare a rate.

Ogni mattina dalla finestra del soggiorno vedo all’orizzonte le punte di Monte Gennaro, tra le quali si riesce a scorgere piccolissimo l’hotel abbandonato dove un tempo approdavano i cestelli della funivia; la schiena della montagna che regge tutto il peso del cielo, il quale con il passare delle ore diventa livido fino a sparire.
Ma a dominare il paesaggio, dalla mia prospettiva, è Sant’Angelo Romano. Le sue case che si abbracciano strette intorno al castello per non scivolare giù dalla gobba della collina.
Sant’Angelo è un paese distratto che gioca spesso con le nuvole. Alcune si posano come una meringa sui tetti delle sue case, altre lo stringono nel buco di una enorme e soffice ciambella. Così ogni giorno il paese ha un aspetto diverso. L’ho visto appisolarsi sulle piume di un tramonto arancione; l’ho visto frastornato nella fitta nebbia del mattino; l’ho visto innamorato, che annusava a occhi chiusi un cielo di seta viola; l’ho visto appitonato di notte, mentre la maga luna affilata fingeva di mozzargli la testa.

Più a Ovest la terra si avvalla e si rilassa nell’ampio tratto della macchia di Gattaceca. Lì, nel punto in cui la boscaglia si infittisce, si nasconde il Pozzo del Merro. Una voragine nota solo alle persone della zona e ai geologi. Il pozzo, all’apparenza una sorta di cratere vulcanico pieno d’acqua, è profondo oltre quattrocento metri. Non si sa con precisione. Di tanto in tanto arrivano elicotteri, sommozzatori e speleologi a studiargli le tonsille. Non so contare le volte che, dalla sponda più alta, mi sono affacciato nel pozzo. Anche lì, sempre con mio padre ed un mazzo di asparagi selvatici.

Fino a pochi anni fa non abitavo in questo esatto punto della Terra. E’ capitato a causa di una lunga catena di coincidenze. Come se il destino avesse voluto accompagnarmi in un luogo in cui coltivare i ricordi migliori. Ne comprendo l’importanza e voglio credere che sia un dono. Non potrei vivere altrove, e comunque non troppo lontano da qui. Un uomo prima o poi rischia di trovare un luogo che gli assomiglia. Un luogo che gli ricalca l’anima e che lo sposa alla terra. Sono fortunato: un posto così l’ho già trovato e ci vivo. Questo luogo mi sta dentro: il mio entusiasmo non è altro che una funivia abbandonata; inoltre da sempre ho la testa tra le nuvole e una voragine nel petto dalla profondità sconosciuta.

Antonio Agrestini

Nostalgie, 17.01.2012